Chi specula sul prezzo del grano?

È vero che l’Ucraina è diventata, nel 2018, il principale fornitore di cereali nell’Unione Europea, ma vanno fatte importanti distinzioni e occorre ridimensionare molto un fenomeno su cui le lobby dell’agroalimentare stanno speculando. Anche se l’export di cereali di Ucraina e Russia rappresenta – in volume – il 18% del commercio globale, solo il 17% del totale dei cereali prodotti nel mondo viene scambiato sul mercato internazionale e solo un quarto della produzione di grano viene commercializzato su scala diversa da quella regionale. L’UE, inoltre, copre solo il 15% dell’importazione totale di cereali con forniture dall’Ucraina e un modesto 5% con quelle dalla Russia.

Stefano Mori 14 Marzo 2022

Negli ultimi giorni è cresciuto il volume della discussione sugli effetti della guerra in Ucraina sul mercato alimentare. Questo aspetto specifico del conflitto viene ripreso da media e istituzioni in maniera strumentale e spesso errata: l’Ucraina viene considerata il “granaio d’Europa” e – minacciando la carestia – si utilizza la guerra per attaccare le tutele ambientali sull’agricoltura europea.

È vero che l’Ucraina ha un ruolo importante come paese produttore: fin dall’Impero Russo, infatti, grazie alle sue fertili e pianeggianti terre, rappresentava una risorsa fondamentale per gli approvvigionamenti di grano e alimenti. In tempi più recenti, l’Ucraina è divenuta addirittura il principale esportatore di cereali nell’Unione Europea, attestandosi come principale fornitore nel 2018[1].

Tuttavia vanno fatte una serie di distinzioni e occorre ridimensionare molto un fenomeno su cui le lobby dell’agroalimentare stanno speculando per ottenere vantaggi.

Una guerra (anche) dei prezzi

Il conflitto sta impattando su filiere internazionali da cui dipendono equilibri politici e sociali di nazioni anche molto distanti dal fronte di combattimento. È il caso di quelle della sponda sud del Mediterraneo, e in particolare di paesi largamente dipendenti dall’importazioni di grano dall’Ucraina come Egitto, Tunisia, Libano.

Per questi paesi, trovarsi privi di un prodotto che garantisce una quota imprescindibile delle calorie assunte quotidianamente dalle persone, è un problema di prima grandezza. Tuttavia, ogni cosa va inserita nel suo contesto più ampio, e se da un lato è vero che alcuni paesi mediorientali e nordafricani scontano una forte dipendenza dalle importazioni russe e ucraine di grano tenero, è altrettanto vero che al di là di questi casi specifici il riverbero del conflitto sull’aumento dei prezzi del cibo non è sensibile.

Anche se l’export di cereali di Ucraina e Russia rappresenta – in volume – il 18% del commercio globale, solo il 17% del totale dei cereali prodotti nel mondo viene scambiato sul mercato internazionale. In particolare, solo un quarto della produzione di grano viene commercializzato su scala diversa da quella regionale. L’UE, inoltre, copre solo il 15% dell’importazione totale di cereali con forniture dall’Ucraina e un modesto 5% con quelle dalla Russia.

Dire quindi che siamo dipendenti dal grano dell’est europeo è una boutade. Un mito come quello che vorrebbe la zootecnia europea dipendente da colture foraggere importate dall’Ucraina. Ancora una volta però, i dati dimostrano il contrario. L’importazione di proteaginose di provenienza russa e ucraina coprono rispettivamente il 4 e l’8% dei consumi.

Eppure l’industria della carne e dei derivati, insieme alle associazioni di categoria, ha agitato lo spauracchio della carestia per chiedere due cose al governo e alla Commissione Europea: aumentare la produzione comunitaria di colture proteiche, in deroga alle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030, e aumentare le importazioni di colture OGM dalle Americhe per sopperire al calo dell’offerta russo-ucraina.

La verità è che questi gruppi di interesse stanno cavalcando il momento drammatico del conflitto per ottenere vantaggi competitivi per i settori della carne, dei prodotti lattiero caseari e dei prodotti da forno, settori ben controllati da aziende di grande e grandissima dimensione, spesso a carattere transnazionale.

Gli scambi fra Italia e Ucraina

Secondo ISMEA, l’Italia si posizionava nel 2020 al decimo posto tra i paesi importatori di prodotti agroalimentari dall’Ucraina. Il fatturato dei nostri acquisti è di 496 milioni di euro, pari al 3% dell’export agroalimentare ucraino. L’Italia è invece il secondo fornitore estero di cibo al paese, dopo la Polonia, con una quota del 7% pari a 415 milioni di euro.

Il nostro Paese acquista dall’Ucraina soprattutto oli grezzi di girasole, mais e frumento tenero. Relativamente al mais, è da segnalare che l’Ucraina è il nostro secondo fornitore dopo l’Ungheria, con una quota di poco superiore al 20% sia in volume che in valore.

La strutturale dipendenza degli allevamenti intensivi dal prodotto di provenienza estera spiega le richieste delle lobby di una deregolamentazione delle importazioni da oltreatlantico, unite alla domanda di una ripresa della produzione domestica e della contestuale sospensione della normativa ambientale.

Più marginale il ruolo dell’Ucraina per il frumento tenero, altro prodotto per il quale l’Italia è fortemente deficitaria. Qui le forniture di Kiev coprono appena il 5% in volume e in valore dell’import totale nazionale. Non sembra sia il caso di individuare nella guerra la causa principale della crescita dei prezzi alimentari.

Perché dunque aumenta il prezzo del cibo?

Non possiamo dire che il conflitto sia privo di ricadute sul commercio di queste materie prime, oltre che degli input chimici (da notare soprattutto la restrizione all’export di fertilizzanti russi varata a febbraio dal presidente Vladimir Putin). Nonostante ciò, un ruolo ben più determinante lo sta giocando la speculazione finanziaria, attraverso i contratti a termine (futures) scambiati alla celeberrima Chicago Stock Exchange (e non solo).

I prezzi delle materie prime alimentari salgono infatti perché il clima di incertezza ne fa impennare il valore in borsa, l’aumento del prezzo dell’energia rende più cari il trasporto e la lavorazione industriale, l’effetto rimbalzo dopo la fase acuta della pandemia vede crescere troppo rapidamente la domanda sul mercato globale rispetto alla capacità di risposta delle infrastrutture commerciali, ancora “arrugginite” da due anni di forte recessione.

Questi sono i reali fattori che contribuiscono a formare il prezzo delle commodities in questo momento: usare la guerra per indebolire le regole ambientali poste dalle strategie europee al settore agricolo è soltanto un pretesto.

Ciò non significa negare la gravità di una guerra alle porte d’Europa. Il nostro pensiero va infatti ai milioni di piccoli produttori di cibo in un paese che fa dell’agricoltura un fondamentale pilastro dell’economia nazionale.

Come spesso succede in queste situazioni, infatti, i contadini porteranno il peso delle distruzioni dei raccolti e dall’impossibilità di raccogliere quello che la terra restituisce dopo un lavoro di generazioni.

Articolo originale: Comune.info Stefano Mori 


[1] https://www.agriculture-strategies.eu/en/2019/05/exports-of-ukrainian-corn-to-the-european-union-counter-meaning-on-the-new-silk-roads/